Questa pare sia un 'ottima analisi che rende l'idea e sfata alcuni miti, primo fra tutti quello che "Non abbiamo fatto le riformeee!"
Ecco le riforme, ne volete ancora? Siii? Eh, si sa, l'italiano è fuuurbooo!
Queste sono solo le ultima due del mercato del lavoro. Poi c'è quella ancor più fondamentale che fu fatta nell'81 e che ci tolse la nostra banca per consegnarla nelle "disinteressate" mani del libero mercato. Ma anche quella delle pensioni non è stata mica male eh.
Ora a fine anno arriverà quella che ci darà il colpo di grazia; quella costituzionale.
Per ora diamo un'occhiata a cosa voglia dire "fare le riforme" come se il fatto di farle fosse utile a prescindere.
(....) L’accordo
del luglio 1993 principalmente voluto dall’allora capo del governo, Carlo
Azeglio Ciampi, era esplicitamente finalizzato alla riduzione della spirale
inflazionistica attraverso la moderazione salariale e ad altri interventi, quali
la politica dei redditi, la crescita degli investimenti innovativi, e l’aumento di
produttività. Tuttavia, come molti economisti hanno dimostrato, la maggior
parte dei risultati attesi di questo accordo non sono stati raggiunti. Al contrario,
la politica di moderazione salariale e di conseguenza la disinflazione
hanno avuto successo (Boeri, 2000; Rossi e Sestito 2000, Lilla, 2005).
Al termine di questo processo di cambiamento, nel mercato del lavoro
italiano è stata introdotta una maggiore flessibilità attraverso il cosiddetto
“Pacchetto Treu” (Legge n. 196 nel 1997) e la legge n. 30 del 2003 (nota come
“Legge Biagi”) che ha promosso innovazioni radicali nelle forme contrattuali
di lavoro e nel mercato del lavoro in generale.(...)
(...)In Italia, esiste un divario ben noto tra la dimensione della flessibilità,
ora ampiamente introdotta, e la dimensione della sicurezza sociale, in quanto
l’attuale sistema di indennità di disoccupazione è complesso, frammentato
e disorganizzato e non in grado di coprire e sostenere tutti i disoccupati.
Una situazione del genere non è stata effettivamente risolta dalla recente
riforma e dall’introduzione da parte del Ministro del Lavoro Fornero di un
nuovo strumento sociale chiamato “Aspi” (una nuova indennità di disoccupazione)
con la Legge n. 92 del giugno 2012. Nei fatti, quest’ultimo non
ha ampliato la platea degli aventi diritto ai sussidi di disoccupazione, che
rimangono legati alla condizione di aver posseduto un contratto di lavoro
nei due anni precedenti alla data di disoccupazione. Inoltre, questo sussidio
di disoccupazione ha una durata limitata (otto mesi rispetto a quattro anni
in Danimarca o due anni in media nella UE-15) e non copre tutti i lavoratori
indipendenti (i cosiddetti CO.CO.CO. o CO.CO.PRO.) che hanno terminato
di lavorare per un certo progetto, collaboratori, lavoratori atipici e precari,
che anzi costituiscono una grande parte di nuovi posti di lavoro, soprattutto
tra i giovani. Infine, il sistema italiano di sostegno alla disoccupazione non
è collegato, in generale, alle politiche attive, come i programmi di integrazione
nel mercato del lavoro, i programmi di ricerca di posti di lavoro e di
formazione in grado di agevolare l’ingresso nel mercato dei disoccupati. (...)
(...)Gli autori delle principali riforme del mercato del lavoro
italiano, hanno più volte ricordato che quelle riforme erano incomplete perche
mancavano di quei contrappesi tipici di un modello di flexicurity (flessibilità
e sicurezza) promosso in seno all’UE: in sostanza si è sempre ricordato che in
Italia si sarebbe dovuto introdurre, dopo le riforme del 1997 e del 2003 più sicurezza
e maggiore welfare, per adeguare la componente sicurezza alla flessibilità
del lavoro in entrata già introdotta. A dispetto di ciò, il Jobs Act decide di introdurre
anche flessibilità in uscita con la riduzione della protezione dell’art. 18.(...)
(...)L’accordo del luglio 1993, in sostanza, ha contribuito alla stagnazione
dei salari a livello nazionale. In seguito, sotto la pressione delle due principali
novità legislative nel mercato del lavoro richiamate sopra (quella del
1997 e quella del 2003), la flessibilità del lavoro, in particolare “in entrata” è
aumentata in modo consistente; il lavoro a termine, il lavoro precario e tutte
le forme atipiche di lavoro sono esplose (Tronti, 2005; Lilla, 2005; Torrini,
2005; Rossi e Sestito 2000). Il processo è stato completato di recente con la
legge del giugno 2012 che ha introdotto forme di flessibilità del lavoro “in
uscita” riducendo l’applicabilità dell’art.18 citato. (...)
(...)La relazione fra grado di protezione dell’impiego (o flessibilità) e livelli di
occupazione non trova, nella letteratura economica, risultati univoci. Diversi
economisti hanno esplorato questo argomento (Scarpetta, 1996; Elmeskov
et al., 1998; Nickell, 2008; Nunziata, 2003), ma le conclusioni raggiunte non
consentono di trovare una risposta definitiva. A livello empirico tuttavia,
i dati di seguito riportati sono chiari: non c’è alcuna relazione tra i tassi di
occupazione e la flessibilità (indice EPL dell’OCSE).(...)
(...)Appare chiara una forte diminuzione del livello
della domanda aggregata (DA) causata da un restringimento drammatico dei
consumi (C) che a sua volta è causato dalla sensibile riduzione della quota
salariale (QS), dalla marcata diminuzione del salario indiretto (SI), vale a dire
la spesa pubblica (G), in particolare nelle dimensioni sociali (DS), dall’aumento
della disuguaglianza (DISUG) e dalla pressione sul lavoro (L) e sui
salari (S) causata da una forte flessibilità del lavoro (FL) e dalla conseguente
creazione di posti di lavoro precari (LP). Il calo della domanda aggregata
è la causa principale alla base del calo del PIL e della recessione in corso
in Italia.(...)
(...)La questione della quota dei salari in calo nelle economie avanzate è
già stata sollevata da diversi contributi eterodossi come quelli di Barba e
Pivetti (2009), Stockhammer (2013), Fitoussi e Saraceno (2010), Fitoussi
e Stiglitz (2009), Brancaccio e Fontana, (2011), i quali sottolineano
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Riforme del mercato del lavoro, occupazione e produttività: un confronto tra l’Italia e l’Europa
come alla base di questo declino ci siano problemi strutturali dei sistemi
economici delle economie avanzate. Tali questioni strutturali sono le
cause profonde della crisi globale e si riferiscono alla polarizzazione
nella distribuzione del reddito e alla disuguaglianza che ha indebolito i
consumi e la domanda aggregata nelle economie. Il declino del salario,
è al tempo stesso in stretta correlazione con il processo di finanziarizzazione
che ha avuto luogo da circa 30 anni a questa parte negli Stati
Uniti e più recentemente in Europa (Tridico, 2012). In breve, l’ipotesi è
che la domanda aggregata, che non è stata sostenuta da salari adeguati,
e da investimenti produttivi, ha utilizzato i canali finanziari e di credito
per sostenere i consumi. Un tale consumo si è rivelato instabile e non
in grado di garantire sostegno a lungo termine alla domanda aggregata.
In particolare dopo lo scoppio della bolla nel 2007, quando il settore
finanziario ha ridotto il credito sia per gli investimenti che per i consumi,
la domanda aggregata è crollata ulteriormente e il declino del Pil
è stato inevitabile. (...)
Questa relazione sarebbe utile leggerla tutta in quanto contiene una serie di grafici imperdibili per capire quanto la parte migliore di questo paese sia stato svenduta al potere del capitale delle classi che stanno in cima alla piramide.
http://host.uniroma3.it/centri/jeanmonnet/pdf/Contributo%20Tridico%20Sindacalismo%20n.28.pdf
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